Papa Francesco alla Biennale: la sua personale visione dell’arte

Antonio Spadaro SJ
5 min readApr 25, 2024

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«Con i miei occhi» è il titolo del Padiglione della Santa Sede alla Biennale d’arte di Venezia. Il Vaticano è presente alla manifestazione sin dal 2013, ma l’edizione numero 60 sarà la prima ad accogliere come visitatore un Pontefice.

Il Padiglione – promosso dal Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede, cardinale José Tolentino de Mendonça, che ne è il Commissario – è curato da Chiara Parisi e Bruno Racine. Deve il suo titolo dalla ricca ambiguità del vedere. «A dire il vero io non ti amo con i miei occhi», scriveva Shakespeare in un suo sonetto che qui risuona con il libro biblico di Giobbe che invece esulta: «I miei occhi ti hanno veduto!». Il vedere prima è negato nella sua importanza rispetto al cuore che vede più dei sensi, poi è affermato perché solo i sensi certificano la presenza reale. Una dissolvenza incrociata tra insufficienza e necessità, insomma, oggi messa in crisi dalla visione «schermata» dai dispositivi digitali. Sappiamo ancora che cosa sia vedere con i nostri occhi?

La scelta forte e controcorrente della Santa Sede è stata quella di allestire il Padiglione dentro il Carcere Femminile della Giudecca, dove l’elicottero papale atterrerà alle 8 del mattino del 28 aprile. E Francesco incontrerà le detenute perché saranno proprio loro a fare da guida ai visitatori del Padiglione.

La proposta artistica prende alla lettera le parole di Francesco, quando chiede di aprire gli occhi sugli ultimi e gli «scarti» della società. Gli occhi della cura richiedono una visione «aumentata» – e per nulla virtuale – non da dispositivi artificiali, ma dall’attenzione e dal cuore. Infatti, già da arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio disse che «la maggiore esclusione consiste nel nemmeno vedere l’escluso». Chi dorme per strada, ad esempio, «non viene visto come persona, ma come parte della sporcizia e dell’abbandono del paesaggio urbano, della spazzatura». La città umana invece «cresce con lo sguardo che “vede” l’altro».

Per Francesco l’artista vede «con i suoi occhi guarda e insieme sogna, vede più in profondità, profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e di capire le cose». Ama, ad esempio, l’arte prodotta con materiali di scarto, come quella di Alejandro Marmo. Sarà evidente quest’anno alla Biennale di Venezia il legame tra arte e impegno civile, tra bellezza e lotta allo scarto. Questo, dunque, il messaggio che il Papa vuol dare con la sua presenza alla Biennale: l’arte è voce dei sogni e delle inquietudini umane. E per questo agisce «come coscienza critica della società». Le opere saranno un invito ai visitatori a prestare attenzione a quelle realtà che tante volte sono tralasciate dal dibattito culturale. Otto gli artisti coinvolti: Maurizio Cattelan, Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Fontaine, Sonia Gomes, Corita Kent, Marco Perego & Zoe Saldana, Claire Tabouret.

Il Padiglione rientra nello spazio della Biennale, curata per la prima volta da un latino-americano, il brasiliano Adriano Pedrosa, che ha come tema generale «Stranieri ovunque», certamente nelle corde di Francesco: pensiamo alle migrazioni, alla situazione degli indigeni, alle varie diaspore.

La scelta di Francesco non è estemporanea, ma legata a una sua personalissima visione dell’arte. Da sempre, infatti, per Bergoglio l’arte è vita e discorso sulla vita: non ha mai creduto al motto estetista dell’«arte per l’arte». Il dominio dell’arte non è un mondo a parte, colto, dotto, aulico, e sostanzialmente «borghese». La sua è una visione radicalmente «popolare», e tocca anche la produzione artistica e la sua fruizione. Il Papa è molto sensibile al genio e alla creatività, che per lui non sono eccezioni, ma dimensioni della vita ordinaria affrontata con energia e intensità.

«Per la vita di una persona la creatività è importante?», gli chiesi nella mia prima intervista che gli feci nel 2013 per La Civiltà Cattolica e le riviste dei gesuiti del mondo. Lui mi rispose con una esclamazione: «è estremamente importante!». E. mi fece due esempi: «in pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano. Ma anche Chagall con la sua Crocifissione bianca…». E ha proseguito: «Io amo gli artisti tragici», citandomi vari esempi poetici e narrativi. La sua non è pura attrazione per la tragedia intesa come genere, ma è desiderio di entrare dentro la condizione umana anche per la via della rappresentazione estetica. Non è il tragico elitario, raffinato a colpire Bergoglio, ma il tragico «popolare». A tal punto che egli fa sua la definizione di opera «classica» che si ricava da Cervantes: l’opera «classica» è l’opera che tutti in qualche modo possono sentire come propria, non quella di un gruppetto di raffinati intenditori. La sua passione per il neorealismo è da inserire in questa visione dell’arte legata al popolo: «l’arte non è una cosa sradicata: l’arte nasce dal cuore dei popoli», ha detto inaugurando il museo etnologico «Anima Mundi». Da qui, ad esempio, anche l’amore per l’arte e la poesia amazzonica, e – più in generale – l’invito ad aprire prospettive inedite sulle dinamiche sociali e artistiche, sfidando pregiudizi, convenzioni, come pure l’austerità del concetto astratto. È interessante dunque notare come la dinamica popolare della sua estetica sia la stessa della sua visione pastorale.

Ma, in particolare, per Bergoglio l’arte pone uno dei gravi problemi della fede: «immaginare» in modo adeguato le verità che crediamo, offrire «la sostanza delle cose sperate, l’evidenza delle cose che non si vedono», come recita la Lettera agli Ebrei. Abbiamo bisogno di immagini potenti. Questo è uno dei motivi per cui, ad esempio, egli ama le litografie surrealiste di Victor Delhez, da lui usate per i suoi biglietti augurali della Pasqua 2014. Ma questo è anche il motivo per cui ama la «pietà popolare», perché è una riserva aurifera di immagini forti e ben innestate nell’immaginario collettivo di un popolo, che si esprimono in modo spesso sovversivo, capaci di raccogliere anche i sogni che la vita ordinaria silenzia o scarta. Bergoglio è radicalmente anti-iconoclasta, ma sempre consapevole della necessità di una ermeneutica non sempre facile, come è stato nel suo caso con le opere di León Ferrari e Luis Espinal.

La riprova del legame che lui avverte tra opera d’arte e visione della vita si ha proprio nel momento di quella intervista alle riviste dei gesuiti in cui Francesco ha sottolineato con forza che le forme di espressione della verità possono essere varie e discordanti, e che anzi «l’uomo col tempo cambia il modo di percepire sé stesso: una cosa è l’uomo che si esprime scolpendo la Nike di Samotracia, un’altra quella del Caravaggio, un’altra quella di Chagall e ancora un’altra quella di Dalí». L’arte, dunque, non è semplicemente un «laboratorio» di sperimentazione di dinamiche culturali ed espressive, ma parte integrante del flusso della storia, espressione del vissuto, motivo per il quale Bergoglio ama il fiammingo Hans Memling, il grande pittore fiammingo, che compie un «miracolo di delicatezza» nel rappresentare la gente. L’arte è nel cammino dell’uomo sulla terra, oggi aperto su un baratro. E su di esso dall’interno del cortile centrale del Carcere della Giudecca si leva un messaggio sintetico, una scritta al neon del duo Claire Fontaine che brilla nel buio: «Siamo con voi nella notte».

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Antonio Spadaro SJ

Sottosegretario del Dicastero Vaticano per la Cultura e l’Educazione🇻🇦| già XX .mo Direttore di Civiltà Cattolica e BoD di Georgetown University