Come ricordo l’elezione di Papa Francesco
Ero a Piazza San Pietro quella sera, ed ecco quel che scrivevo pochi giorni dopo
13 marzo 2013. Dopo pranzo non potevo rimanere in casa ad attendere la fumata, bianca o nera che fosse. Ero ansioso, forse nervoso. In ogni caso «sentivo» di non poter continuare a scrivere avendo sempre aperta una finestra del mio Mac su vatican.va/video per tenere d’occhio la situazione a distanza. Vedo San Pietro dalla mia finestra nella sede de La Civiltà Cattolica. A volte vedo tramonti stupendi dietro il cupolone. Ma sentivo che dovevo stare sotto il cupolone e non davanti.
Pioveva, anche se non troppo. Decido di bivaccare in Sala Stampa vaticana. Sotto i portici, davanti a via della Conciliazione 54, incontro amici giornalisti. Tra loro anche una mia amica (non giornalista) valdese. Anche lei in attesa. Mi viene chiesta al volo un’intervista video sulle sfide del nuovo Papa. Io la rilascio percependo però un senso di forzatura rispetto ad altre dichiarazioni rilasciate fino a quel momento a partire dal fatidico 11 febbraio, quando Benedetto XVI aveva annunciato la sua rinuncia. Quando scrivo quella data, spesso mi confondo e scrivo 11 settembre. Anche scrivendo le pagine che seguono. Certo entrambe sono date storiche. Ma anche scrivere «annuncia la rinuncia» e non «si dimette» mi dà dei problemi, pur essendo corretto. Ma questo mi fa piacere perché associa, in maniera etimologiacamente corretta, il «rinunciare» all’«annunciare». Di questo si è trattato, infatti.
Entro in Sala Stampa e mi rianimo. Mi sento a casa tra gente che attende come me, e che non vede l’ora di raccontare ciò che ancora non sa. Incontro amici, ci scambiamo idee, previsioni, guardiamo l’orologio, restiamo ipnotizzati dal gabbiano che si posa sul comignolo e che da lì non vuole muoversi. Facciamo battute. Questo piccolo comignolo tradizionale, ripreso da tutti i più sofisticati strumenti tecnici, sembrava essere diventato il simbolo delle attese dell’umanità. Il tempo passava. Erano le 19,00 e ancora nulla. I cardinali hanno i vespri alle 19,15. Perché ancora nulla? Si fanno ipotesi già dalle 18,45. Quando ecco Salvatore Izzo urlare: «È bianca!». Ed ero già in piazza come un fulmine. Attendo con gli altri mentre smette di piovere «provvidenzialmente». Ero accanto ad alcuni giovani. Gli smartphone non permettevano scambio di dati. Dunque non ho potuto mandare alcun messaggio, alcuna foto. E così gli altri, che comunque sollevavano le loro estensioni tecnologiche per immortalare gli istanti e condividerli dopo.
«Georgium Marium»
Ecco aprirsi le finestre. La piazza diventa elettrica: «Annuntio vobis gaudium magnum; habemus Papam: Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Dominum Georgium Marium».
La gente accanto a me era muta. Chi è «Georgium Marium»? Io ero ammutolito, ma per un altro motivo. Sapevo che non poteva che essere il mio confratello gesuita Jorge Mario Bergoglio. Un papa gesuita. «Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Bergoglio qui sibi nomen imposuit Franciscum». Al nome Francesco è esploso il tripudio. La gente accanto a me aveva colto rapidamente la mia sorpresa, lo stupore che mi attraversava e che non voleva abbandonarmi. «Lei lo conosce?», mi chiedono subito. Io balbetto: «Sì, è un gesuita». E il feedback è uno stupito quanto intimorito «Un gesuita?».
L’uomo vestito di bianco si affaccia. E io sono ancora stupito, emozionato. Che cosa significa questo per me come gesuita, mi chiedevo? Ho sempre ritenuto un papa gesuita come un personaggio da film sulla fine del mondo. Non l’ho mai considerato possibile. Iacopo Scaramuzzi, vaticanista, in Sala Stampa pochi minuti prima mi aveva chiesto se ritenevo «papabile» il cardinale Bergoglio. Gli risposi di no con decisione. Lui invece mi disse di sì. Chapeau. Lo ritenevo impossibile sia perché non c’è mai stato, sia perché noi gesuiti ci pensiamo al servizio del Papa e non Papi. C’era una sorta di dissonanza carismatica che cercavo di recuperare man mano che l’entusiasmo, anche in me, cresceva.
L’uomo vestito di bianco era immobile. Solo dopo ho saputo che questo per lui è normale: «Se mi succede qualcosa di inaspettato, bello o brutto che sia, — disse tempo fa ricordando la sua nomina a vescovo ausiliare di Buenos Aires — resto sempre come paralizzato».
Era davvero bianco, troppo bianco. Ho capito il perché solamente dopo: era senza mozzetta e senza stola. Ero troppo confuso, forse, per vedere ciò che vedevo. Ero colpito dal mio confratello Jorge Mario Bergoglio che stava quasi immobile col braccio sinistro disteso lungo il busto. Ieratico. Forse per me enigmatico. Certamente commosso. Che farà? Che dirà? Sono trascorsi attimi lunghissimi che si sono sciolti nel suo dolce «Buonasera», con quell’accento argentino la cui dolcezza abbatte ogni ostacolo, ogni distrazione.
Quando il Papa saluta, mi rendo conto che nel mio cellulare stavano fluendo gli sms di congratulazioni. Un centinaio circa. Appena è tornata la connessione dati, ecco l’ondata di tweets e mail con richieste di interviste di ogni genere e da ogni parte. Ed ecco subito lì in piazza San Pietro tanti giornalisti che mi chiedono di lui, essendo io gesuita e direttore de La Civiltà Cattolica. Una giornalista americana raccoglie alcune mie dichiarazioni digitando rapidamente sul suo piccolo BlackBerry. Poi pretende di farmi leggere il testo trascritto su uno schermo di 2 pollici e mezzo.
Due mesi incredibili
Anche l’11 febbraio il telefono aveva cominciato a squillare presto. Ma io, quando il Papa ha annunciato la sua rinuncia, ero proprio in Vaticano. Varcavo Porta Sant’Anna verso casa proprio quando il Papa parlava ai cardinali. Ricordo però con chiarezza di aver detto tra me: «oggi qui c’è qualcosa di strano». Non potevo immaginare. Appena rientrato, il vicedirettore, p. Michele Simone, mi dice: «il Papa si è dimesso». E io gli rispondo con una battuta. Lui mi dice: «guarda che è vero». E io formulo un’altra battuta, ma corro al computer per verificare l’origine della «bufala». Tutti i siti davano la notizia. Come in un sogno, io non ho creduto finché non ho raggiunto il sito della Radio Vaticana. Lì, come Tommaso, ho creduto. Anche perché i telefoni hanno cominciato il loro concerto.
Ho vissuto due mesi incredibili che si sono idealmente conclusi con la presentazione in Sala Stampa vaticana della nuova versione de La Civiltà Cattolica, la rivista più antica d’Italia tra quelle che mai hanno interrotto le pubblicazioni. Non potevamo prevederlo, ma la rivista è arrivata ai nostri lettori del tutto rinnovata nella grafica, nella struttura, nel supporto digitale e nelle sue prospettive future esattamente il 6 aprile, giorno del suo «compleanno» (6 aprile 1850–6 aprile 2013), col nuovo Papa e col Papa gesuita.
I contatti con i numerosi giornalisti di varie parti del mondo che mi hanno chiesto interviste hanno fatto maturare in me idee, prospettive, domande. Ho tenuto il mio diario, ho annotato le mie riflessioni, ho cercato risposte alle mie domande per poterne scrivere per i nostri lettori e per i giornalisti con i quali mi sono confrontato. Aver accompagnato la diretta di alcuni eventi dal palco montato per le televisioni su Piazza San Pietro mi ha dato una prospettiva ottica aggiuntiva, ma aver dato interviste per media di Paesi non cristiani mi ha costretto a una decodificazione degli eventi che alla fine si è rivelata per me importante.
Una curiosità che in piazza mi ha dato un ulteriore brivido: scrivendo su La Civiltà Cattolica la cronaca degli eventi a partire dall’ultima udienza di Benedetto XVI, sapendo che avrei concluso con l’elezione del Papa, ho dato per comodità un titolo fittizio al mio pezzo. Invece di mettere una serie di x al posto del nome del futuro Papa, ho scritto il nome di Francesco. Non saprei bene il perché.
La visione gesuitica del Papa
Una delle domande che più spesso mi è stata fatta durante le interviste riguarda la «gesuiticità» del Papa. Personalmente nelle sue parole e nei suoi gesti mi sento sempre a «casa». Un po’ perché la forma così «latina» della sua comunicazione mi è molto congeniale, considerando anche le mie radici. Un po’ perché sento risuonare in tutto il suo modo di fare la spiritualità più classica della Compagnia di Gesù, nella quale anch’io sono cresciuto dai miei 22 anni (ne ho 46). Mi rendo conto di procedere riconoscendo gli specifici tratti della «ignazianità» che non sempre appaiono chiari ed evidenti per tutti, né devono esserlo, ovviamente. Tuttavia è utile ricordare che la formazione gesuitica di Bergoglio e le sue responsabilità nell’Ordine hanno plasmato il suo stile di vita, di preghiera e di azione pastorale.
Un elemento apparentemente secondario che mi colpisce molto è il suo andare letteralmente a «fiuto», facendo appello all’olfatto spirituale dicui Ignazio di Loyola parla nei suoi Esercizi Spirituali (n. 68). E così Papa Bergoglio potrà invitare i sacerdoti ad essere «pastori con l’odore delle pecore», oppure potrà dire che l’uomo corrotto «puzza», «odora di putrefazione». Il discernimento spirituale si fa anche a naso.
Ma l’elemento più «gesuitico», o meglio più radicato nella spiritualità ignaziana, credo sia la sua visione del tutto, il quadro: l’immagine di un Dio «vitalmente mescolato in mezzo a tutti e unito a ciascuno», come scrive in una sua splendida riflessione sulla città. E lì prosegue: «Dio vive già nella nostra città e ci spinge — proprio mentre ci riflettiamo — a uscire incontro a lui per scoprirlo, per costruire relazioni di prossimità, per accompagnarlo nella sua crescita e per incarnare il fermento della sua Parola in opere concrete».
Faccio notare che Bergoglio qui dice due cose a mio avviso capitali. La prima è che Dio non è da «portare» in città con l’annuncio cristiano, come se fosse assente. Dio è già all’opera nel mondo, sempre. La seconda è che noi siamo chiamati ad «accompagnare» le sua crescita. Dunque Dio «cresce» in qualche modo, e noi lo aiutiamo a crescere nel mondo.
Si riconosce subito il gesuita formato alla spiritualità di Ignazio di Loyola, che nei suoi Esercizi afferma che Dios habita en las criaturas (ES, 235), e che Dios trabaja y labora por mí en todas cosas criadas sobre la haz de la tierra(ES, 236). Il mondo è il cantiere di Dio. Da qui la Congregazione Generale 34 della Compagnia di Gesù, in un documento sul sacerdozio ministeriale e l’identità del gesuita, ha delineato un’immagine che vediamo pienamente incarnata in Papa Francesco: «In consonanza con la tradizione ignaziana, nel loro ministero sacerdotale i gesuiti vivono con profondo rispetto i modi in cui Dio è già all’opera nella vita di tutti gli uomini e di tutte le donne. L’opera di Dio non comincia con ciò che facciamo noi ma, fin dalle benedizioni della creazione, Dio aveva posto le fondamenta di ciò che avrebbe portato a compimento con la grazia della Redenzione».
E il documento prosegue fornendo la conseguenza naturale di questa visione di Dio «lavoratore»: «nell’esercizio del loro ministero sacerdotale, i gesuiti cercano di scoprire ciò che Dio ha già operato nella vita delle persone, delle società e delle culture, e di discernere come Dio proseguirà la sua opera. Sottolineando che tutta la vita umana è illuminata dalla grazia, questa visione della vita influenza il modo in cui si realizza il sacerdozio ministeriale del gesuita nei diversi campi» (n. 177, corsivo mio).
Questa visione è generata in Papa Bergoglio dalla conteplazione dell’Incarnazione così come la propone sant’Ignazio e come Bergoglio stesso la descrive nel suo libro Dios en la ciudad. Questo è uno sguardo che «si coinvolge drammaticamente»: «Lo sguardo che propone Ignazio non è quello che ascende dal tempo all’eternità in cerca della visione beatifica definitiva, per poi “dedurre” un ordine temporale ideale. Ignazio propone uno sguardo che permette al Signore di “incarnarsi di nuovo” (ES 109) nel mondo così come è. Lo sguardo delle tre Persone è uno sguardo che “si coinvolge”».
Questa è la prospettiva dalla quale natutalmente guardo al Pontificato che è stato appena inaugurato.
Una speranza radicale
Questa grande visione dell’universo in cui Dio è all’opera ad modum laborantis, come scrisse sant’Ignazio, non può cedere al pessimismo. È questo uno dei tratti che plasmano intimamente, anche emotivamente, le parole e i gesti di Papa Francesco. E questo ha in me echi profondi. Nella famosa intervista pubblicata col titolo El Jesuita egli afferma con chiarezza: «Io credo nell’uomo. Non dico che è buono o cattivo, dico che credo in lui, nella dignità e nella grandezza della persona».
Mi colpiscono anche i segni che Bergoglio coglie come «prova» di questa fede nell’uomo: «L’uomo continua ad avere comportamneti altruisti, a scrivere cose molto belle, a fare poesia, a dipingere, a inventare nuove tecniche e a far avanzare la scienza. E siccome io credo nel futuro dal punto di vista umano, ci credo ancora di più dalla prospettiva cristiana, a partire dalla presenza di Cristo in mezzo a noi».