William Denslow’s map of Oz

La critica militante e le sue mappe

Antonio Spadaro SJ
3 min readJul 3, 2020

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Una forma adeguata di critica militante è costituita dall’elaborazione di «percorsi di lettura»: si tratta di una modalità fortemente propositiva e progettuale in quanto, nella ricognizione critica il «paesaggio» letterario, costruisce ipotesi che segue l’avventura dei libri come tasselli di un mosaico. Il critico infatti non può e non deve fare a meno dello sguardo globale, delle prospettive ampie, grandangolari sul panorama letterario; non può esimersi dalla necessità di guardare nell’ottica del «paesaggio», della mappa geografica.

La mappa vuole essere uno «spazio critico» ed è dunque qualcosa di più di un itinerario: c’è il rapporto ad una totalità, ad una globalità. La via criticamente rilevante dei «percorsi» rende ragione della sensibilità e della temperatura delle scritture contemporanee, rintracciando e segnalando in questo modo, in un contesto ermeneutico preciso, quelle che si ritengono maggiormente valide. In tal modo si presenta implicitamente come una buona alternativa agli usuali «premi letterari» che spesso puzzano di salotto e di polemiche inutili. Occorre soprattutto ricordare che fissarsi sullo scoop e su ciò che fa tendenza, valutare solo ciò che fa più rumore significa avere della realtà una visione parziale ed effimera.

Le mappe danno il gusto dei percorsi in biblioteca, percorsi guidati, ovviamente, e qui emerge il vero ruolo del critico: non quello del giudice, appunto, ma quello della guida (Caronte o Virgilio che sia), dell’accompagnatore. Questo non significa «etichettare», ma «offrire delle “rotte”, costruendo una mappa “immaginaria” per riorganizzare i tragitti»[1]. È in fondo il mestiere della talpa. Il «paesaggio» letterario dovrebbe diventare

«l’ipotesi di una critica ripensata sulle distanze, nello spazio, seguendo l’avventura dei libri nel loro comporsi e scomporsi come frammenti di un possibile intero»[2].

In quest’ambito critico-progettuale è possibile indagare l’idea di realtà che muta. Per cui, il critico cosa chiede allo scrittore? Vorrebbe, innanzitutto, discutere con lui il suo progetto di letteratura, il suo rapporto con la scrittura, la natura della sua condizione di scrittore, la sua idea di realtà, rispettando l’individualità del suo percorso. È necessario capire l’orizzonte da cui nasce un testo, perché nasce in quel modo, quali sono le sue radici. Da qui sarà possibile tracciare le mappe e i percorsi, fatti anche di ascendenze, modelli, radici e, senza dubbio, anche di rami e di nuovi sentieri.

Se si accetta questa linea critica, occorre assumere l’abito della pazienza, che consiste nell’aspettare che il romanzo scompaia dalla scena della chiacchiera dell’oggi. Solo con la mediazione del tempo si potrà dire se un romanzo è «attuale» o è solo un gioco combinatorio. Questo non significa evitare il giudizio e la compromissione. Un critico militante ha il dovere di emettere giudizi complessivi, negativi o positivi e deve avere il coraggio di scegliere, e di dichiarare le proprie scelte. Tuttavia l’emettere un giudizio non è la causa finale vera e propria del lavoro critico, ma è al più un dato che emerge quasi spontaneamente, anche se in modo non definitivo, dal lavoro di confronto e di discernimento sulle radici e l’orizzonte di un’esperienza letteraria che si avverte come riuscita o meno. Il primo compito del critico è quello di essere interprete e dunque «accompagnatore», non innanzitutto giudice.

Si tratta insomma di compiere un esercizio attento, un lavoro di fiuto e comprensione dell’orizzonte e delle radici da cui nasce un testo, anche al di là delle intenzioni o della coscienza tematica dell’autore. È dunque un lavoro non di «morale», ma di attento «discernimento» che forse, oggi più che mai, è il compito di una critica illuminata.

Veramente allora il critico militante, scrive Giorgio Manacorda, «nel momento in cui legge, e scrive su ciò che ha letto, è solo di fronte al mondo, e deve decidere se ciò che sta leggendo vale la pena di essere letto anche da altri o se, invece, può essere dimenticato»[3]. E così, proprio perché non fa riferimento a sistemi consolidati, secondo Manarcorda ha un che del monaco, nel senso che cerca l’«assoluto», cioè in questo caso la poesia:

«il rapporto con il testo è di tipo mistico: è un incontro diretto e senza riserve, in fondo indifeso»[4].

[1] R. CARBONE — F. GALATO — F. PANZERI, Altre storie. Inventario della nuova narrativa italiana fra anni ’80 e anni ’90, Milano, Marcos y Marcos, 1996 , 64.

[2] Cfr Ivi, 80.

[3] G. MANACORDA, Apologia del critico militante, Roma, Castelvecchi, 2006, 7.

[4] Ivi, 8s.

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Antonio Spadaro SJ

Sottosegretario del Dicastero Vaticano per la Cultura e l’Educazione🇻🇦| già XX .mo Direttore di Civiltà Cattolica e BoD di Georgetown University