Corpi e storie al tempo del coronavirus

Antonio Spadaro SJ
2 min readMar 7, 2020

Il clima di attesa e di sospensione proprio di questi giorni di coronavirus è una sfida alle nostre relazioni. Una delle cose più strane è il fatto che, quando incontri una persona cara, non sai mai che cosa fare. La abbracci? Non la abbracci? Come ci si saluta al tempo del coronavirus?

La nostra gestualità non prevede inchini. Prevede sorrisi, ma in genere accompagnati da gesti della mani. Quando ci si saluta a distanza si scuotono le mani per fare «ciao». Ma quando si è a un metro di distanza non si può. È ridicolo. Gli americani si sono inventati il «Roman handshake», la stretta di mano alla romana (dicono loro) che unisce non le mani ma i gomiti.

Ma no. Per molti l’unico modo per uscirne è bucare l’imbarazzo e dire qualcosa come «e già, ci hanno detto che non dobbiamo toccarci…». E così ci si sorride e si continua a parlare. Però sentiamo che la distanza ci pesa. E la vicinanza ci preoccupa.

Le relazioni diventano un tema di riflessione. Anche perché devi lottare contro l’istinto. Lo sai: se vuoi bene e vuoi proteggere non devi stare vicino, ma lontano.

Dobbiamo ricostruire una prossemica accettabile. Non sappiamo dove il virus sia, non sappiamo nemmeno se ce lo abbiamo già dentro il corpo. Non c’è più spazio per le paranoie, che invece hanno sempre un oggetto. Resta l’ansia. Oppure l’atteggiamento di spavalderia vigile di chi non vuol farsi condizionare troppo, ma sa che deve stare attento per sé, ma soprattutto per gli altri. Non parliamo qui degli irresponsabili, ma ci sono anche loro, forse. Ma, dato che non sappiamo dove il virus sia, dobbiamo reinventarci i significati delle distanze e delle prossimità.

Parliamo molto, invece, raccontiamo molto in questi tempi di quarantene imposte o scelte, e dunque di solitudini acerbe e non abituate allo smartworking. Si parla al telefono, in videoconferenza, si chatta. Si ha bisogno di confermare i legami emotivi perché questi ci salvano. E i legami emotivi si costruiscono grazie alle storie.

Il racconto scavalca le mascherine per rivelarci il volto di chi mi sta accanto, la sua vita. Il volto che si racconta è finalmente scoperto e riscoperto.

In questo tempo di riti modificati, di prassi infrante, di abitudini dissolte dal maleficio, le storie sostituiscono i corpi che — transustanziati da desiderate affezioni in potenziali infezioni—non possono addensarsi, ma solo salutarsi a distanza. A meno che non condividano il tetto come le famiglie o le comunità, entrambe possibili sedi di quarantene che rimescolano ritmi, relazioni, incubi e desideri.

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Antonio Spadaro SJ

Sottosegretario eletto del Dicastero Vaticano per la Cultura e l’Educazione🇻🇦| già XX .mo Direttore di Civiltà Cattolica e BoD di Georgetown University