AUGURI, MR. SCORSESE!
Antonio Spadaro S.I.
New York. Il 3 marzo 2016 suono il campanello a casa Scorsese: è una giornata fredda, ma luminosa. Sono le 13,00. Vengo accolto in cucina, come in famiglia. La persona che mi fa entrare mi chiede se voglio un buon caffè. «Italiano», precisa. Accetto. Infreddolito. Sono arrivato un po’ in anticipo e ho preferito attendere facendo il giro dell’isolato. L’idea di un caffè caldo – e italiano – mi attira. Ad accogliermi in soggiorno è la moglie di Martin, Helen. Ho una forte sensazione di casa. Parliamo a lungo prima dell’arrivo del marito. Siamo seduti sullo stesso divano.
Arriva Martin con passo svelto e col sorriso accogliente. Parliamo subito delle nostre radici comuni. Siamo in qualche modo «paesani». Sa già che io sono di Messina. Lui mi dice che è di Polizzi Generosa, che le sue radici sono là.
Nel corso di una serie di interviste che ho fatto con lui abbiamo ricordato la sua vita da figlio di immigrato nei quartieri di New York, la sua vita da chierichetto. Ne esce un miscuglio di legami di sangue, violenza e sacro. I ricordi della chiesa, la Old St. Patrick, si fondono con quelli di ragazzino che, inconsapevolmente, dalla sua finestra, fa della strada il suo primo set cinematografico: quello della sua immaginazione e dei suoi sogni.
Martin ha l’asma sin da ragazzino. Mi sono chiesto come questo incida sulla visione della vita il fatto di avere il respiro corto. E il fatto che fosse spesso costretto a guardare la vita dalla finestra: «il ricordo di avere guardato in strada e di avere visto tante cose, alcune belle e altre orribili, e alcune indescrivibili, per me è centrale», mi ha detto.
L’occhio della telecamera è l’occhio della finestra di casa sua. Imparare a guardare: “anche questa è una grazia,” mi ha detto: “per me, tutto si riduce alla questione della grazia. La grazia viene quando non te l’aspetti”. Ho scoperto che Martin è un uomo che ha una profonda sensibilità per il dramma e un’altrettanta acutissima sensibilità per la «grazia», a ciò che nella vita accade senza che ce lo siamo meritato o ce lo siamo guadagnato con lo sforzo.
Guardando dalla finestra ha capito una cosa: che noi, esseri umani, siamo brillantemente creativi e altrettanto brillantemente distruttivi. Questo rende l’uomo inspiegabile, irriducibile a spiegazioni: è «il mistero grande, stupefacente, del nostro esserci, del vivere e morire».
Quella finestra era nel Lower East Side di Manhattan, in quel quartiere italo-americano conosciuto come Little Italy. Ci ha vissuto dagli anni Quaranta fino agli anni Sessanta. E, come sa chiunque abbia visto qualche suo film, questo su di lui ha avuto un profondo effetto.
Dai due lati della famiglia c’erano sette o otto figli, e molti zii e zie. Erano nati tutti in Elizabeth Street. Non in ospedale, ma proprio lì, nelle case popolari. Avevano sostanzialmente ricreato il loro vecchio paese nel nuovo mondo. Quindi, in un certo senso, – mi ha detto – è cresciuto in questa terra dove siamo quest’oggi.
Per questo, quando due anni fa a casa sua a New York gli ho rivolto l’invito del sindaco di Polizzi di accettare l’invito a ricevere la cittadinanza onoraria, la sua risposta è stata immediata e felice. Me lo ricordo ancora. C’è bisogno di riconnettersi con le radici proprio quando i rami danno i frutti maturi.
Mi ha detto quest’estate, in un collegamento da Messina proprio davanti al gorgo di Cariddi: «Non passa momento che non pensi alla Sicilia e alla mia famiglia siciliana. Mi affascina il fatto di essere parte di quel territorio. La Sicilia fa così tanto parte della mia vita, di chi sono e della mia identità che, in un certo senso, ho raggiunto un punto nella mia vita in cui devo abbracciarla ancora di più».
E oggi sei qui, Mr. Scorsese per abbracciare la tua terra, ma soprattutto per farti abbracciare dalla tua terra, per ricevere il suo calore, quello «nostro», cioè tuo.
Perché i tuoi abbracci sono memorabili.
Grazie per quello che fai, grazie per quello che sei!